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Software libero non vuol dire anarchia: per chi usa componenti open source come "semilavorati" software qualche limitazione c’è. Ed è meglio pensarci prima
Le espressioni "free software", software "libero" e open source sono molto spesso usate come sinonimi, ma esistono fra le varie forme di software "alternativo" differenze anche sottili che devono essere comprese dall’utente aziendale.
Per capire in prima battuta l’accezione più ampia dell’espressione "software libero" bastano le definizioni delle Free Software Foundation: il software è libero nel senso che l’utente ha la libertà di usarlo, di avere il codice sorgente per capire come funziona e per modificarlo in base alle sue necessità, di distribuire ad altri senza limitazioni il programma originario e le eventuali modifiche apportate. "Open source" è un termine analogo ma in un certo senso meno ideologico. Secondo i puristi, infatti, sottolinea solo un aspetto (il libero accesso al codice sorgente) e non mette in evidenza le "libertà" di cui dovrebbe disporre l’utente. In entrambi i casi, al di là delle contrapposizioni un po’ filosofiche, il nome significa poco per l’utente finale: di fatto a governare tutti i dettagli di come e con che limitazioni si può usare codice "libero" sono le licenze d’uso che lo accompagnano. E qui la questione si fa decisamente variegata. Prosegui la lettura dell'articolo cliccando sul link che segue:
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